LA VITE MARITATA DELLA VALLE SPOLETANA

Il sistema di allevamento tradizionale della zona, ma ormai quasi in disuso è la “piantata con tirella”. Tale
metodo prevede la coltivazione promiscua della vite maritata a specie autoctone quali l’acero campestre, il frassino ossifillo e l’olmo campestre. Le file sono distanziate di circa 12 m tra di loro, mentre le piante si
distanziano di circa 4 m, e tra una pianta e l’altra si lasciano crescere lunghi tralci (tirelle).

Già nel 1553, Leandro Alberti, nella sua Descrittione di tutta Italia stende una piacevole descrizione della
pianura di Spoleto e Foligno, caratterizzata dalla presenza di viti sostenute da alberi tutori, solitamente olmi, pioppi o aceri campestri:

“Veggonsi da ogni lato della via Flaminia per questa bella pianura fruttiferi campi, ornati di diversi ordini
d’alberi dalle viti accompagnati con molti ruscelletti di chiare acque. Et non meno scorgesi gran moltitudine di mandorli et d’olivi, ove ne’ tempi del verno un gran numero di tordi si pigliano, che scendono dai monti a cercare l’olive per loro cibo. Produce questa amena pianura grano et altre biade, et se ne cavano buoni vini et altri frutti. Certamente così per la bellezza, come etiandio per la fertilità sua, ella si può annoverare fra i belli et fruttiferi luoghi d’Italia”.

La promiscuità nell’uso del terreno, la presenza di viti maritate agli alberi sia nella pianura che nelle colline è l’annotazione ricorrente anche nei diari dei viaggiatori stranieri che tra il XVI e il XIX secolo hanno raggiunto Spoleto e il suo territorio come, ad esempio, Fynes Moryson (1594), Heinrich Schickhardt (1600), Anne-Claude Philippe de Caylus (1715), Edward Wright (1721), Tobias Smollet (1764), Anna Miller (1771), John Moore (1775), Karl Phillip Moritz (1786) ed altri.

Merita una citazione a se stante lo spoletino Luigi Pompilj che nella sua opera, A Spoleto tra Ottocento e Novecento, ricorda come il poeta Giosuè Carducci, la sera del 4 giugno 1876, a Pissignano ebbe modo di
apprezzare una “buona cena a base di trote del Clitunno innaffiate di Trebbiano, il vino bianco che nella regione spoletina ha un bel color d’ambra dorata, arriva talora a tredici gradi e, appena spillato dalla botte, è fresco e frizzante“. Ed è proprio durante il suo soggiorno a Spoleto che il Carducci trovò l’ispirazione per la lirica Alle fonti del Clitunno, una delle sue Odi barbare più note.

E ancora, nel 1879, lo storico spoletino Achille Sansi scriveva: “In tutte le regioni d’Italia chiunque marita la vite all’olmo e pianta molti olmi nel campo sostiene di adottare il sistema in uso presso i contadini di Spoleto”.

Dopo l’Unità d’Italia, l’inchiesta parlamentare che prende il nome dal senatore Stefano Jacini, sotto il cui nome venne pubblicata tra il 1881 e il 1890, fornisce un quadro d’insieme desolante della condizione delle campagne italiane al quale non sfuggiva l’Umbria, dove la coltivazione della vite, seppure figurava al secondo posto dopo i cereali, era la più trascurata: tanto lavoro per una bassa qualità dovuta a tecniche di produzione sbagliate e poco igieniche.
Analoghe osservazioni erano state fatte dagli spoletini Antonio Ancajani nel XVIII secolo e da Pietro Fontana nel XIX secolo. Se a ciò si aggiunge anche lo scetticismo dei contadini davanti alla necessità di un
cambiamento nelle tecniche di lavorazione si delinea un quadro di estrema difficoltà.

LA VITE SULL’ALBERO

(tratto da I Patriarchi Verdi – Itinerari in Valle Umbra)

Fino a pochi decenni fa tanta parte della valle era coperta da viti di trebbiano spoletino maritate all’acero o all’olmo. Il trebbiano spoletino è un vitigno tipicamente di pianura, che sembra smentire il luogo comune che colloca in collina la migliore viticoltura. La pianta del trebbiano spoletino è vigorosa. Necessita di spazio per la crescita e di sole per la maturazione del frutto.

Per questo motivo, gli agricoltori in passato pensarono bene di ‘maritarla’, in particolare all’acero campestre o all’olmo.
Potevano, così, garantire una sufficiente distanza dei tralci dal suolo e scongiurare le insidie delle gelate tardive tipiche della pianura. Al contempo, riuscivano ad assicurare un buon soleggiamento dei grappoli che pendevano abbondanti dai lunghi tralci, legati in coppia ai fili di ferro tesi tra un albero tutore e il successivo, realizzando in questo modo le cosiddette ‘tirate’.

Oggi di quelle piantate restano pochi filari residuali (molto spesso si tratta solo di poche piante).

Alcune di queste coltivazioni sono ancora presenti tra i territori comunali di Trevi, Castel Ritaldi e Montefalco, a testimoniare un aspetto del paesaggio vegetale della Valle Umbra ormai praticamente scomparso.

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